Si è parlato della casa in questo evento, e i relatori partecipavano ciascuno dalla propria casa: Lidia Maggi dalla sua cucina, don Fabio Corazzina dal suo studio e Alessandro Augelli dalla casa di don Piero, che adesso è diventata la casa dell’Associazione Amici del Calabrone: sono i cortocircuiti resi possibili dall’essere online.
Maggi identifica la casa con il “luogo delle relazioni”: e le relazioni richiedono molta manutenzione, altrimenti rischiano di crollare nella tempesta come è successo a tante situazioni familiari nel corso del primo lockdown.
Una domanda fondamentale percorre l’incontro: come relazioniamo con l’altro? Nella casa si impara la grammatica che permette di guardare l’altro (i figli che non capisci, il coniuge che invade spazi o non rispetta i tempi) con attenzione ai suoi bisogni. Si deve riflettere sui sentimenti che l’altro scatena, e dare loro un nome (sia la rabbia, sia la gratitudine).
La casa è lo spazio tutto. Il decalogo, dice Maggi, si conclude con un comandamento dedicato alla casa: non desiderare la casa dell’altro pone già la casa nella città, ci sono i vicini. Porre il problema su come abitiamo la casa significa anche porre il problema su come viviamo la vita, la casa è un simbolo che richiama il nostro modo di abitare la terra.
Ma che dire, interviene Corazzina, della situazione di chi non ha né casa né lavoro né un pezzo di terra, il cui numero sta crescendo anche in conseguenza dell’esperienza del coronavirus? Inoltre sono chiuse le scuole, “case” degli studenti; riprenderanno gli sfratti.
Non è solo un problema economico e nemmeno un problema di ordine pubblico, è un problema che riguarda la civiltà e anche la serenità di una città.
C’è una festa nell’ebraismo – riflette Maggi – sukkot, la festa delle capanne, dove il popolo fa memoria di un tempo di precarietà in cui ha abitato nelle capanne, nelle tende: fa memoria di questa precarietà perché si smetta di sentirsi troppo sicuri e protetti nella muratura delle proprie case, si ricordi di essere sempre in bisogno di cura e di protezione, di relazione.
Israele per arrivare a costruire una grammatica della libertà affronta proprio il tema della precarietà raccontando il camminare nel deserto.
Nonostante il periodo, dobbiamo smettere di usare il linguaggio dell’emergenza. Va fatta educazione al prendersi cura della città come casa e comunità più grande di quella di sangue. Educarci a vivere le relazioni pensando che l’altro mi riguarda: un’educazione agli affetti, alla relazione può essere una grammatica che parliamo in ogni ambito: casa, quartiere, nazione, Europa.
Ci prepariamo a una situazione che scatenerà rabbia e violenza. Dobbiamo vigilare, ribadire che il mondo è la casa comune, l’altro è mio fratello. Dobbiamo poter dire parole profetiche, trovare metafore, parabole, specchi.
Neppure la Bibbia dà risposte univoche o ricette, perché non ce ne sono. Possiamo solo porre domande o raccontare storie che aiutano a interrogarsi su come fare i conti con l’altro, guardare i possibili tentativi di soluzione in base al contesto storico: a volte la risposta è andarsene (l’Esodo; le donne vittime di violenza) ma non è l’unica, Geremia dice la cosa opposta (“cercate il bene della città”), Ester tiene nascosta la propria identità di ebrea per poter agire.
Tutta la Scrittura è una riflessione sulle relazioni con l’altro ma senza una risposta univoca: dà risposte parziali in dialogo con il contesto in cui si vive.
Dobbiamo educarci a uno sguardo ampio, non limitarci alla cronaca, al dettaglio: ma fare memoria di una storia passata che abbiamo ereditato. Non limitarci ai benefici immediati, ma cercare un bene che può anche costare un sacrificio adesso, lavorare sulla programmazione: ad esempio, si chiede Corazzina, che tipo di elementi mettiamo nella riqualificazione di un quartiere?
Nel nord Europa, racconta Augelli, stanno usando la coprogettazione come strumento per costruire i parchi e i quartieri: come dire che le case non le può costruire qualcuno che poi ci insegna come abitarle. Oggi decide chi tiene i cordoni della borsa, ma per alcuni soggetti questo non può andare bene.
In chiusura, Maggi chiama in causa le chiese come casa comune, laboratori di creatività per ripensare il quartiere. La fede non può essere in contrapposizione con la politica o l’impegno sociale, le chiese devono tornare ad essere luoghi dove ripensare il bene comune, in cui l’anima non viene separata dalla vita concreta.