Il lavoro all’interno del penale minorile è una sfida quotidiana.
I ragazzi che incontriamo sono arrabbiati; arrabbiati con gli adulti che non li hanno ascoltati e accuditi, con il contesto che non li valorizza, con i coetanei che percepiscono come più fortunati e privilegiati, con gli spazi che li fanno sentire inadeguati.
Spesso la risposta a questo malessere è un’azione trasgressiva di cui i giovani autori non riescono a percepire la gravità né le conseguenze. Troppo concentrati sulla loro rabbia e le loro sofferenze fanno fatica a vedere il dolore che causano a coloro che subiscono i loro gesti.
Il sentimento e il pensiero comune riguardo questi fatti di violenza minorile è che l’inasprimento delle pene ed un atteggiamento più punitivo possano essere la soluzione a questo aumento dei reati giovanili, concentrando, erroneamente, l’attenzione su un’emergenza securitaria invece che sull’emergenza educativa.
In questo contesto le testimonianze come quella di Lucia Di Mauro, che abbiamo incontrato grazie a Libera Brescia, assumono ancora più valore e ci raccontano che esiste un modo per interrompere la catena del male generata da un’azione violenta, un modo più faticoso e doloroso, ma, forse, più efficace.
Lucia, vedova di Gaetano Montanino, vittima innocente di mafia, ci ha raccontato così la sua testimonianza:
Per anni ho immaginato che l’assassino di mio marito fosse brutto, che avesse la cattiveria negli occhi, invece, quando l’ho incontrato ho visto un ragazzino, indifeso, che piangeva e tremava.
Era un giovane distrutto dal male che aveva commesso, soffriva. Vederlo in quello stato mi ha fatto reagire in un modo completamente diverso da quello che mi aspettavo: l’ho abbracciato e lui è svenuto tra le mie braccia. Tenerlo in braccio per sorreggerlo mi ha fatto intenerire, ho cercato di tranquillizzarlo, l’ho rincuorato. Gli ho detto che ormai Gaetano, mio marito, non sarebbe più tornato da me, ma che insieme avremmo potuto fare molto per i ragazzi come lui. Antonio, l’assassino di mio marito, allora aveva l’età di mia figlia.
Questo incontro ha scosso le fondamenta delle mie convinzioni e ha scatenato un processo di trasformazione dentro di me.
Ho sentito su di me la responsabilità educativa collettiva nei confronti dei giovani. Sono nate nuove domande e nuovi interrogativi che prima erano sommersi dal lutto per la perdita di mio marito.
Cosa abbiamo fatto noi adulti per crescere giovani così violenti?
Dove eravamo noi quando questi ragazzi hanno iniziato a delinquere?
La richiesta dell’incontro è venuta proprio da Antonio, io non ci avrei mai pensato, all’inizio non volevo nemmeno vederlo. Il primo incontro è avvenuto per caso. Da quel momento, dopo aver visto la sua sofferenza, ho accettato di incontrarlo nel carcere minorile di Nisida.
Ogni volta conoscevo un pezzettino in più della sua vita e mi affezionavo a lui. Dopo un po’ di tempo, mi hanno detto che Antonio sarebbe potuto uscire dal carcere in libertà vigilata solo se io avessi acconsentito. Ho accettato e l’ho aiutato, perché quando è uscito dal carcere non aveva niente, l’ho aiutato come si farebbe con un figlio quando ha sbagliato. Ho iniziato a prendermi cura anche dei suoi bambini, della sua famiglia. Sapevo cosa significava per mia figlia non avere un padre e non volevo la stessa fine per quei bambini.
Quest’anno, in occasione dell’anniversario dall’assassinio di mio marito, abbiamo portato insieme i fiori sulla tomba di Gaetano e Antonio ha portato con sé i suoi figli. Oggi Antonio lavora in un bene confiscato alla mafia intitolato proprio a Gaetano e lavora con i disabili.
“Volevo che dal sacrificio di mio marito nascesse qualcosa, solo così la sua morte sarebbe stata riscattata”
Da questo incontro con Antonio, Lucia dice di aver trovato un modo per elaborare il lutto del marito, per dare un senso al dolore. È stato difficile ed è difficile ancora oggi: per anni si sono parlati senza guardarsi negli occhi.
Non è stato facile nemmeno scontrarsi con gli altri famigliari di vittime innocenti di mafia che giudicavano negativamente la sua scelta e, più in generale, con un sistema corrotto che Lucia identifica come il vero colpevole della morte del marito, tradito dalla divisa che lui stesso portava con onore e orgoglio.
Nel suo racconto Lucia sottolinea l’impossibilità di scindere gli episodi di devianza dal contesto in cui avvengono, e richiama alla responsabilità non solo di chi il reato lo compie, ma anche della comunità che necessariamente deve interrogarsi e prendere parte ai processi di giustizia. È ciò che intendono fare i percorsi di giustizia riparativa che, partendo dalla frattura generata da un reato, mirano alla sua ricomposizione attraverso l’ascolto dei bisogni delle parti e il dialogo.
La giustizia riparativa, oggi riforma, non è una “scorciatoia buonista” al sistema penale, anzi, è un cammino faticoso che attraversa le conseguenze dolorose generate da un reato. Le persone vanno accompagnate con rispetto, sia dei loro tempi, che della loro volontà e possibilità di scegliere liberamente se proseguire o meno nel percorso.
“Questi ragazzi sono figli nostri, di un’intera comunità, dobbiamo occuparci di loro prima che commettano reati ma anche dopo. Ci vuole un atto di coraggio, ma il cambiamento deve partire da noi. Con la mia esperienza voglio dirvi che la riconciliazione e l’amore possono rompere il ciclo della violenza e della vendetta, aprendo la strada a una nuova speranza”