Atti del convegno “Giovani sul filo” – 19 gennaio 2023, Peschiera del garda.
Da dove nasce "Giovani sul filo"
Il 2 giugno 2022 Peschiera del Garda visse un giorno triste e difficile: centinaia di adolescenti e giovani provenienti dal Nord Italia, rispondendo a un invito lanciato su Tik-Tok, la invasero letteralmente creando tensione, paura e rabbia. Il convegno GIOVANI SUL FILO è nato da qui.
Una giornata di riflessione non facile da organizzare, proprio perché i fatti di quel giorno indignano e turbano ancora oggi ed è stato necessario lasciar passare del tempo, provare a prendere le distanze.
La violenza non è mai né accettabile né giustificabile, ma dietro al senso più profondo del convegno “Giovani sul Filo” c’è la convinzione che condannare certe condotte non sia sufficiente a evitare che si ripetano.
Julio Velasco, commissario tecnico di una vincente nazionale italiana di Volley diceva: “Io voglio schiacciatori che schiacciano bene palle alzate male. Non voglio schiacciatori che continuano a parlare di come è stata alzata la palla. Gli schiacciatori non devono parlare dell’alzata, devono risolverla.”
Quel 2 giugno fu chiaramente una palla alzata male, molto male, ma non è giudicando l’alzata che troviamo le soluzioni, è riportando l’attenzione su di noi e cercando il modo di “schiacciare bene una palla alzata male”.
Sessione mattutina - Caratteristiche del fenomeno
Con Ivo Lizzola professore ordinario di Pedagogia generale e sociale dell’Università degli Studi di Bergamo, Gabriele Rabaiotti professore di Analisi della Città e del Territorio del Politecnico di Milano e con gli ospiti della sessione pomeridiana, abbiamo analizzato in profondità la nostra funzione educativa di adulti che accompagnano il percorso di crescita degli adolescenti, ribadendo la necessità di governare con sensibilità e autorevolezza le dinamiche territoriali e la convivenza tra cittadini.
Senza bacchetta magica, naturalmente, ma procedendo un passo alla volta, lasciandoci interrogare dalle situazioni, provando ad attribuire significati e sperimentando risposte nuove.
Rimandando al video completo del convegno che abbiamo realizzato per approfondire e rendere concreta l’analisi, proviamo di seguito a tracciare un primo riassunto dei lavori consegnando al lettore una serie di riflessioni.
Fenomeni come quello di Peschiera presentano alcuni tratti già noti in passato, con una maggiore complessità che deriva dal fatto che coesistono fra loro in modo simultaneo diversi aspetti: il forte bisogno di essere riconosciuti, l’immediatezza spesso violenta nel dare un nome alle cose, il diffuso richiamo, soprattutto nelle canzoni trap, ad una figura materna comunque presente e accogliente, il riferimento al quartiere come luogo di vita costitutivo di un’identità che si caratterizza per essere in contrapposizione con altri quartieri, in una lotta fra le diverse appartenenze, una formulazione alternativa delle regole, di cosa si può fare e cosa no e la loro autoreferenzialità, il continuo richiamo ad elementi divisivi del noi contro loro.
Identità plurime
La prima riflessione riguarda la necessità di fare sintesi fra identità plurime e chi può accompagnare i ragazzi in questo processo: un modello educativo basato sulla prossimità fisica come si concilia con i luoghi del digitale in cui gli adolescenti abitano la maggior parte del tempo?
Innanzitutto bisogna sottolineare come sia una “questione accademica” l’aver istituito l’Adolescenza, il rischio è quello di scambiare le realtà delle adolescenze uniche con i criteri dell’Adolescenza.
Per questo è più corretto parlare al plurale di adolescenze.
Ciò che è avvenuto a Peschiera ha a che fare con la creazione di comunità che in realtà sono molto fragili e immediate, ma rispondono alla ricerca di un’appartenenza identitaria qualsiasi, per alcuni di loro una ricerca che arriva fino alle loro origini, spesso rappresentate in modo idealizzato (ad esempio lo straniero di seconda generazione è molto lontano dalle sue origini).
È necessario che i ragazzi e le ragazze riscoprano la mediatezza, che in questo gioco di ricerca dell’identità, in quest’epoca segnata da una forte angoscia legata alla mortalità e alla violenza, sentano ancora possibile costruire un progetto di vita: ma noi abbiamo un futuro? Se non si partecipa ad avventure che intorno alle fragilità costruiscono occasioni di ingaggio e di vita dentro il concreto farsi del futuro la domanda diventa drammatica. I patti con altri possono essere occasione di tenuta, di speranza di futuro concreta e possibile, per non correre del tutto nel rischio dell’immediatezza, del giocarsi tutto sul momento e di non vedere il futuro.
Tuttavia, i bisogni dentro le progettazioni non possono essere scontati, perché spesso anche gli adolescenti non sanno quale è il loro bisogno e, quindi, devono essere accompagnati a scoprirlo. Possono così rendersi conto che il loro bisogno è legato al loro desiderio e per realizzarlo è necessario coltivare lo spazio dell’esitazione della scelta.
Per potere decidere, ossia per rompere rispetto ad una strada precedente, bisogna ricostruire la capacità di scelta e per farlo è necessario aprire tanti luoghi possibili dentro le nostre comunità, che vengano riconosciuti come tali.
Il riconoscimento dell'altro
La seconda riflessione riguarda la fatica di riconoscerci reciprocamente, lo sguardo dell’altro è importante per definire chi siamo.
Negli ultimi anni gli adolescenti, quando si discostano in modo significativo dall’immagine che gli adulti hanno su di loro è come se smettessero di esistere.
Inoltre, i giovani sembrano non essere più interessati allo sguardo degli adulti: come ricomporre relazioni in cui sia possibile agire un ruolo educativo se i giovani non riconoscono più gli adulti?
Nei percorsi, come quello delle MAP, è necessario avviare un processo di diverso riconoscimento dell’altro. Spesso i ragazzi e le ragazze dietro le loro trasgressioni non vedono delle vite e le conseguenze che le loro azioni hanno o possono avere sull’altro: bisogna favorire il passaggio dalla trasgressione della norma alla consapevolezza della sofferenza arrecata. Nel momento in cui ci si mette in gioco c’è un richiamo a un contatto con la propria fragilità, soprattutto quando si sente che alcune esperienze di vita comune dipendono anche da te, facendoti riscoprire, non solo nella tua capacità di distruggere, ma anche nella tua possibilità e nelle tue potenzialità.
Per comunicare tra le generazioni è necessario creare spazi e modi della vita per entrare in contatto, bisogna immaginare la vita quotidiana tra generazioni.
In alcune scuole di Bergamo e provincia, durante la pandemia, gli insegnanti si sono rigiocati creativamente nel fare il loro mestiere lasciandosi provocare dalla vita: studenti e studentesse tenevano in contatto telefonicamente anziani e adulti soli, riportando i racconti ascoltati nell’aula virtuale e gli insegnanti li facevano interagire con le discipline. In questo modo la vita veniva ascoltata dalla scuola e la scuola si riscopriva nella comunità. La nostra realtà deve pullulare di queste esperienze, è un lavoro per tantissimi soggetti, è un lavoro intermedio tra gli spazi privati e pubblici, è la tessitura del tessuto fine della democrazia, fatta di queste responsabilità reciproche, micro e diffuse con queste chiamate in gioco esigente.
Il reato dà riconoscimento, fa sentire in un’avventura con altri, anche la repressione dà visibilità sociale, il rischio è che qui inizino carriere devianti. Per rompere questo meccanismo è necessario rispondere in modo tempestivo con esperienze educative altrettanto forti rispetto a quelle del reato, con un senso di appartenenza più forte, con il gusto di costruire e di ritrovare sé stessi diversamente, insieme ad adulti che si interrogano su di loro e con i ragazzi e le ragazze.
A volte come mondo adulto e come istituzioni, quando riconosciamo di aver sbagliato, pensiamo sia un problema di iter o procedura. Tuttavia questa convinzione è una trappola perché nasce dall’idea che l’assunto sul quale si fonda l’istituzione è sempre valido, è sempre vero e certo: e se non avessimo ragione noi?
I ragazzi sono molto diversi da noi, non solo perché sono adolescenti, ma anche perché sono figli di altre storie e della rivoluzione digitale, quindi ciò che ci dobbiamo chiedere non è solo chi sono loro, ma anche chi siamo noi.
Il nostro modo di reagire o le nostre emozioni rispetto agli eventi che coinvolgono gruppi di adolescenti dicono molto anche del nostro modo di essere come adulti. Riflettere su questo aspetto vuol dire ascoltare la loro idea di città, di relazione, il loro modo di stare insieme che non è una deviazione rispetto al nostro è proprio un’altra storia. Questa è una frattura che non ci interroga solo sul “loro rispetto a noi”, ma anche su noi rispetto a loro ed è necessario che la comunità adulta si interroghi perché il disagio è anche il nostro. Come adulti ci viene chiesto di occuparci anche del futuro di altri.
L'esplosione del malessere
La terza riflessione riguarda l’esplosione del malessere adolescenziale che cerca valvole di sfogo disfunzionale, una delle forme che assume è la rabbia, un’emozione che, però, non è prerogativa dei ragazzi e delle ragazze.
Come si può ascoltare il grido profondo di questo malessere, come agire sui dispositivi educativi e territoriali, sulla convivenza per coltivare anche una società della cura? Come disinnescare le esplosioni più violente del rancore?
A tal proposito è necessario avviare percorsi in cui si impara un uso buono della rabbia, quella che diventa indignazione, energia dentro un progetto che si fa senso di responsabilità e partecipazione nella vita gli uni degli altri. A volte è anche una fortuna incontrare adolescenti che urlano, altri stanno nel silenzio e si arrendono alla fatica della vita. Il perché uno dovrebbe curare la vita e il perché uno dovrebbe rispettare le norme, sono due domande molto vicine, è un problema di desiderio della vita che passa attraverso il riconoscimento dell’altro.
Queste esplosioni di malessere hanno anche a che fare con le geografie. I luoghi scelti dai ragazzi e ragazze, sono scelti per un motivo, spesso la musica e le produzioni adolescenziali sono accomunati da una vita vissuta all’interno delle case popolari, quindi, in quartieri periferici. La comunità che si crea attorno a questi fenomeni musicali è virtuale e si crea per comunanza di interesse, il problema nasce quando questa comunità si incontra per la prima volta fisicamente, un’esperienza che forse gli adolescenti fanno fatica a gestire. Inoltre, in questi luoghi marginali, la vita comunque si organizza e si creano prossimità molto importanti tra persone che spesso faticano ad andare a chiedere aiuto ai servizi.
Sessione pomeridiana - Unire i puntini
“L’obiettivo del pomeriggio è quello di unire i puntini posizionati dagli interventi della mattina” – chiarisce Alessandro Augelli presidente de il calabrone ETS.
In sala numerosi educatori territoriali, un sociologo, uno storico e un antropologo, assistenti sociali di differenti comuni, uno psicoterapeuta. La domanda prevalente è: come dobbiamo agire?
Un fenomeno di baby gang?
Carlo Bartelli dirigente della Squadra Mobile di Verona: “Quello che è successo a Peschiera non può essere, come è stato pubblicizzato per mesi, chiamato un fenomeno di baby gang. Le baby gang sono gruppi strutturati che decidono di delinquere. A Peschiera si sono verificati episodi di microcriminalità”.
“Le baby gang sono gruppi di ragazzi perlopiù minorenni organizzati tra di loro e hanno caratteristiche diverse da tutti quei gruppi criminali che di solito si conoscono. Gruppi che spacciano, furti, rapine ma con modalità totalmente diverse da baby gang. Un elemento è l’evidenza, la pubblicità. Hanno la necessità di far conoscere le proprie condotte criminose. Sono loro stessi che filmano le proprie condotte criminose facendo intendere come non siano ancora del tutto consapevoli del loro profilo criminoso. Ancora non hanno la percezione. Non comprendono realmente la gravità delle loro condotte. E poi lo fanno sempre con l’aspetto della predominanza numerica. Non sono mai singoli partecipanti al reato ma si identificano con il gruppo. Nessuno ha un preventivo incarico da dover svolgere. Si basano sul contesto, su quello che si trovano davanti. Non si sa se compiranno una rapina o un’aggressione. Il modus operandi non è preordinato. Questa è una prima fase embrionale. Noi qui a Verona abbiamo avuto esperienze di questo tipo”.
“La forza di emulazione. I social. Tiktok che è forse quel canale sociale che sta enfatizzando questi fenomeni.
Il periodo del covid è stato un periodo durante il quale tutti ci siamo spenti, non avevamo un materiale su cui lavorare. In quel periodo i giovani hanno approfondito la conoscenza dei social, anche di quello che di irreale succedeva sui social. Poi sono usciti allo scoperto.
Tutto quello a cui stiamo assistendo oggi è il frutto di quello che questi ragazzi hanno elaborato in quel periodo a nostra insaputa. Oggi la nostra prevenzione non può solo essere sul territorio e nelle aree più sensibili ma sul web. Da lì oggi si percepiscono i sintomi, le iniziative, individuiamo gli stimolatori dei fenomeni. L’invito all’appuntamento sventato dell’Adige è stato mandato da un ragazzo totalmente sconosciuto alle forze dell’ordine. Quel ragazzo, con quell’invito, ha ottenuto 14mila visualizzazioni in pochi minuti. Per noi è difficile intercettare queste comunicazioni. Quello che serve per evitare un 2 giugno è la prevenzione mediatica soprattutto”.
“Elemento innovativo. Non si conoscono questi ragazzi e vanno ad agire in un luogo non loro. Si sentono liberi di fare cose che nel proprio quartiere non farebbero mai. Hanno un’età che non gli permette ancora di capire quali siano quei valori. Quanti treni sovraffollati ci sono all’uscita dalle scuole che quei ragazzi frequentano? Tanti, eppure i palpeggiamenti delle ragazze non ci sono stati su quei treni, fuori da quelle scuole. Ma a Peschiera, in una zona in cui loro si sentivano sconosciuti”.
“Le famiglie attuali hanno un problema di fondo. Oggi i genitori hanno la difficoltà di dover dare gli strumenti ma abdicare al controllo. Una volta i genitori sapevano dove andava un figlio, quando, con chi. Adesso non è più possibile”.
“Nelle bande giovanili non ci sono solo immigrati di seconda generazione. Ci sono anche tanti veronesi, spesso di buona famiglia.
C’è un altro pericolo in questo momento storico.
Siamo molto lontani dalle bande di Parigi e Londra che hanno preso possesso del nostro territorio. Noi però abbiamo un problema che Parigi e Londra non hanno e che è la criminalità organizzata.
La criminalità organizzata può trovare in questi gruppi giovanili, che non hanno la percezione del pericolo e della gravità delle proprie azioni, delle leve per fare attività che a loro portano patrimonio. Lo spaccio al minuto, per esempio. Diventano la loro manovalanza. Così si spalanca loro la porta del crimine”
Comportamenti devianti: il ruolo della famiglia
Giuseppe Battaglia medico psichiatra dell’adolescenza e psicoterapeuta familiare: “Come medico credo sia necessario distinguere comportamento deviante da baby gang. Ci sono comportamenti devianti che lo possono diventare. Quando diventa baby gang non possiamo andare a colloquio. Lì ci deve essere la repressione. La prevenzione vera è la prevenzione primaria.
La vera prevenzione primaria parte dalle famiglie. Bisogna capire da dove viene il ragazzo. Spesso questi ragazzi vivono in un contesto indifferenziato dalla famiglia.
Significa che le emozioni all’interno del nucleo familiare non è ben chiaro di chi siano. Per fare un esempio, se la mamma è triste lo sono anche io. In un contesto differenziato io vedo la mamma che è triste e mi dispiace per lei. In queste invece si confondono i piani. Non c’è una barriera.
Per capire cosa succede a questi ragazzi, e il loro comportamento, bisogna quindi andare a vedere come stanno quelle famiglie.
E come facciamo a capire come stanno? Non possiamo mandargli la polizia, o l’educatore. In quel momento è già troppo tardi. Bisogna quindi partire da molto prima, interagire con le scuole, con il territorio, con la comunità locale. Si deve creare quella connessione di cui si è parlato in tutta la giornata di oggi.
Tra l’altro, per contro, la letteratura ci dice che i genitori sono l’elemento protettivo principale, lo strumento più forte per portare i figli fuori dalla devianza. Da qui si capisce l’importanza di agire su di loro”.
E ancora: “Le famiglie da cui vengono questi ragazzi non sono cattive famiglie, credo però che questi ragazzi siano molto soli. E quello che fanno è cercare un gruppo di appartenenza extra familiare. Questi sono ragazzi con difficoltà evolutive. Non si rendono conto di quello che fanno perché non hanno avuto l’occasione e gli strumenti di evolvere, di capire quali sono le conseguenze. Gli strumenti devono fornirli le famiglie”
“Certamente è anche colpa dei ragazzi – prosegue il dottore Battaglia – Si è sviluppata una cultura per cui questi ragazzi non sono mai responsabili di niente. Se noi gli passiamo il messaggio che non sono responsabili equivale a dirgli che non sono in grado, che sono dei poveri cretini”.
Quello che non dobbiamo fare è diventare aggressivi con questi ragazzi. Possiamo insegnare loro non cosa sentire ma come affrontare quello che sentono. Ai ragazzi dobbiamo passare il messaggio che possono agire, cambiare, sono parte della cosa”.
“Credo che la famiglia sia fondamentale perché dà imprinting, e per questo è centrale. Nell’adolescenza però il peso enorme ce l’hanno i gruppi. La famiglia da la base di valore. Ed è vero che non abbiamo più una percezione condivisa. Gli adolescenti ce la rinfacciano la nostra incongruenza.
Se la famiglia è connessa al territorio allora si può governare anche un’adolescenza difficile. Mamma e papà non ce la fanno da soli. Gli adolescenti ti distruggono, ti piallano emotivamente. Possiamo entrare in queste famiglie? Se rispondiamo di no perché mai ci siamo incontrati oggi?
Gli adolescenti figli di immigrati hanno una difficoltà doppia perché devono emanciparsi due volte, dalla famiglia e dalla cultura di appartenenza. Questo provoca conflitti. La chiave secondo me è l’interesse. Mostrarsi interessati a quelli che fanno”.
“Noi non possiamo metterci in pari con la loro capacità tecnologica, con la conoscenza che hanno di questi strumenti. Ma noi possiamo insegnare loro quello che è giusto e quello che è sbagliato. Questo lo possiamo fare”.